I° Triumvirato da Spinosa

In quel frattempo tornò alla luce un’aspirazione di Pompeo che nessuno più gli attribuiva: egli voleva nuovamente un comando militare. Ne fece esplicita richiesta quando nell’Urbe apparve a reclamare soccorso il Re d’Egitto Tolomeo Aulete che i suoi oppositori avevano scacciato dal trono con un colpo di mano. Il Magno chiese comandare l’esercito destinato a restaurare il re “flautista” in Alessandria, ma ancora una volta i padri coscritti gli negarono l’incarico. Pompeo entrò in collisione con Crasso il quale a sua volta pretendeva lo stesso comando. Il triumvirato si era frantumato, e in più le inaudite violenze di Clodio screditavano sensibilmente i popolari. Il Magno era tornato in pieno nella lotta politica dopo l’eclissi albana e, per dar prova di essere a cinquant’anni sempre in possesso d’una giovanile energia, si gettò a capofitto a procurare derrate per i romani. Le sue navi viaggiavano in lungo e in largo per il Mediterraneo cariche di grano proveniente dalla Sardegna, dalla Sicilia, dall’Africa. Egli appariva come invaso da un delirio, e in quei mesi di frenetica attività marinara se ne uscì con un’esclamazione che ebbe un’immensa fortuna tanto da arrivare in tutta la sua freschezza ed efficacia ai nostri tempi: “Navigare necesse est, vivere non est necesse”. Egli navigava sì perché Roma non morisse di fame, ma soprattutto per imporre il suo dominio che ormai impallidiva al confronto delle conquiste di Cesare. Caio Giulio si rese conto che bisognava correre ai ripari per restituire un minimo di vitalità e unità al morente triumvirato, tanto più che all’orizzonte si profilava per lui personalmente una grave minaccia: il pernicioso Licio Domiziano Enobarbo, cognato di Catone e suo vecchio avversario, nel candidarsi al consolato del 55, aveva fatto sapere che era sua ferma intenzione proporre, una volta eletto, la revoca del governatorato di Cesare, dovevano assolutamente incontrarsi per discutere insieme la situazione e quindi adottare energiche contromisure. Egli si trovava a Ravenna, ma come luogo della conferenza propose Luca (Lucca), la città più a sud della Gallia Cisalpina. Crasso aveva già raggiunto il proconsole a Ravenna per fargli un quadro della confusa situazione romana e per metterlo al corrente di un’ultima novità negativa: Cicerone, assecondando i nemici di Cesare e di Pompeo, aveva sostenuto con vigore in Senato la necessità di abolire la legge che sanciva la distribuzione delle terre in Campania, e ciò con il pretesto di procurar denaro fresco all’erario esangue. Cesare si sdegnò per l’ingratitudine dell’oratore che doveva a lui il ritorno a Roma, e non durò fatica a convincere il DIVES dell’utilità dell’incontro a tre. Fu assai meno semplice persuadere Pompeo. Caio Giulio gli faceva sapere da ambasciatori fidati che volentieri, in compagnia di Crasso, gli sarebbe andato incontro nella città di Lucca, dove il Magno di lì a poco sarebbe passato diretto in Sardegna a rastrellare derrate. Dopo lunghe tergiversazioni anche Pompeo accettò la proposta del collega, e la conferenza potè svolgersi a metà aprile. Roma fu messa a rumore dalla notizia della risorgente alleanza. Bastò l’annuncio della riunione perché molti personaggi, che apparivano incerti o addirittura nemici del triumvirato, corressero nuovamente a schierarsi con Cesare, Pompeo e Crasso. A Lucca, durante le riunioni dei tre grandi, convennero più di duecento senatori per fare atto di omaggio nei loro confronti e dichiararsi disponibili a seguirli ovunque. Numerosi erano i magistrati presenti che disponevano d’imperio, come Appio Claudio Pulcro procuratore della Sardegna e Quinto Metello Nepote proconsole nella Spagna citeriore, tanto che per le strade della città cisalpina circolavano più di centoventi littori, quando non stazionavano davanti del proconsole. C’erano anche uomini e dame d’ogni ceto, provenienti dall’Urbe e dalle province, che volevano festeggiare il condottiero. Cesare colmò tutti d’oro e di speranze, come scrive Plutarco che definisce l’incontro a Lucca una cospirazione volta a una nuova suddivisione del potere fra i tre congiurati e all’abolizione della costituzione romana. I colloqui fra i tre grandi si svolsero a porte chiuse, lontano da orecchie e occhi indiscreti, per cui non si venne subito a conoscenza dell’intesa colà raggiunta. Grande fu egualmente l’agitazione in Senato. Cesare, Pompeo e Crasso salvarono il triumvirato, anzi lo rafforzarono sottoscrivendo un nuovo impegno di collaborazione diretto ad impedire che le più grandi leve del potere cadessero nelle mani degli avversari. E il miglior modo per scongiurare la iattura consisteva nell’impossessarsene saldamente. Così venne stabilito che Pompeo e Crasso avrebbero presentato la loro seconda candidatura al consolato per l’anno seguente; un loro successo avrebbe non solo comportato la fine di Lucio Domiziano Enobarbo, il più pericoloso dei nemici, ma soprattutto il prolungamento di altri cinque anni del proconsolato di Cesare nelle Gallie, un incarico già vicino alla scadenza del primo quinquennio; in più si sarebbe consentito al generale di portare a dieci il numero delle legioni a lui sottoposte e sostenute a spese delle finanze pubbliche. Al termine del consolato, Pompeo avrebbe ottenuto il governo di Spagna per cinque anni e Crasso quello della Siria insieme al comando della guerra contro i parti, mentre Cesare, conclusa la sua decennale esperienza nelle Gallie si sarebbe riservato il diritto di chiedere un secondo consolato. Infine il consolare Aulo Gabinio, il più smodato adulatore di Pompeo, avrebbe ricondotto Tolomeo Aulete sul trono di Alessandria senza ascoltare il Senato e intascando i grossi donativi offerti dal re “flautista” a lui e al Magno. Firmata l’intesa, Cesare riprese la via della Gallia transalpina richiamato dall’esplosione di altre rivolte, mentre Pompeo e Crasso, nuovamente rappacificati, tornarono insieme nella capitale dove si misero subito al lavoro per la realizzazione del loro piano. Tutti e tre erano i veri padroni di Roma; la loro forza li metteva in condizione di decidere a tavolino la spartizione del potere, sicuri del successo e indipendentemente dalla volontà del Senato che sapevano di poter piegare ai loro disegni. Insomma il triumvirato, quella sorta di alleanza privata, aveva nuovamente nelle mani i destini della repubblica potendone orientare a proprio piacimento le scelte e i programmi. L’atteggiamento di Cicerone all’indomani dell’accordo di Lucca, fece capire anche ai più svagati come davvero i tre grandi avessero riconquistato tutto il potere e come la sorte di ogni romano dipendesse nuovamente dalla vitalità della loro intesa.

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