Caesar, l’Italiano che dominò il mondo

Cap. XXIII – Inizio dell’Intesa. Incontro alla Domus publica 60 a.C.

Cesare allarga le braccia, a palme aperte. Volge lo sguardo a Pompeo, poi a Crasso, ma né l’uno e nell’altro si muove. Sembrano non aver visto il suo gesto, ignorano i due seggi uno di fronte all’altro da una parte e dall’altra del tavolo coperto da un drappo rosso su cui sono collocati piramidi di frutta e di brocche di vino fresco.
Cesare li osserva per qualche istante, sono come due bestie feroci sospinte nell’arena.
Pompeo ha il comportamento imperioso di un capo di guerra, gambe aperte, mento all’insù, braccia conserte. Un leone sicuro della sua forza. Sa di essere sostenuto da quella migliaia di veterani che hanno fatto le campagne d’Asia sotto il suo comando. Gode dell’appoggio di alcuni membri del Senato. E la plebe è sensibile alla sua gloria, plaude al suo trionfo.
Di fronte a lui Crasso sembra piccolo, quasi insignificante, eppure dalla sua grossa testa, incassata tra le larghe spalle, emana una forza inquietante. I suoi tratti esprimono l’avidità, la ferocia e il disprezzo. Non guarda Pompeo, ma Cesare lo sente pronto a balzare come un leopardo.
Cesare fa un passo avanti. Se lasciasse quei due uomini soli, si salterebbero alla gola e si potrebbe separarli solo a patto di troncare loro la testa.
Si piega leggermente in avanti, ripete il suo gesto, le braccia tese, a indicare i seggi, poi prende posto sul suo, che ha fatto collocare al centro della stanza dagli ospiti.
Dice “Voi siete le due possenti colonne di Roma”. Si volge a Pompeo. “Chi può impedire ai veterani di amarti? Eppure rifiutano a te, che con le tue legioni hai conquistato l’Asia, la possibilità di dare ai tuoi soldati le terre alle quali hanno diritto”.
Pompeo ha un’esitazione, quindi si siede, sempre a braccia conserte.
Cesare guarda Crasso che, il volto contratto, la bocca imbronciata, occupa finalmente il suo posto. “Tu Crasso, puoi comprare Roma. Senza di te, nulla si può fare in città. E tuttavia non ti si assegna il glorioso comando al quale hai diritto.”
Si alza, comincia a camminare per la stanza, andando dall’uno all’altro.
Indica le colonne del peristilio, il giardino di cui si vedono i grandi pini ad ombrello.
“Tutti e tre” prosegue “abbiamo servito bene Roma, io che sono pontifex maximus e imperator, voi che siete stati già consoli e senza i quali Roma sarebbe stata vinta, la plebe affamata, in rivolta. Ma chi si ricorda che avete schiacciato le bande di schiavi, crocifisso quegli animali selvaggi che seguivano Spartaco?” S’interrompe, si risiede. “E noi siamo costretti, tutti e tre noi che abbiamo pacificato le Province, sterminato gli schiavi e i pirati, noi che la plebe e le legioni acclamano, noi siamo costretti a riunirci qui, in questa Domus publica , fuori dal Pomerium, quasi fossimo sospetti. E’ giusto?”
Tace. Si sente il chioccolio delle fontane. Batte le mani e gli schiavi entrano nella stanza, riempiono le coppe di vino, le porgono a Crasso e Pompeo, escono.

“Se ci insultano in questo modo” riprende Cesare “e non ci accordano ciò a cui abbiamo diritto, è perché siamo disuniti e così possono prendersi gioco di noi”. Si rivolge a Pompeo. “Cicerone ti lusinga, Pompeo, va dicendo dappertutto che basta farti promesse perchè tu sia mansueto come un cane ammaestrato. Non ti sei forse sottomesso congedando il tuo esercito? Ed ecco che il Senato si rifiuta di riconoscere le Province d’Asia che tu hai conquistato”.
Pompeo abbassa la testa. Cesare adesso guarda Crasso.
“Tu ….” Ma lo vede alzarsi di scatto, mettersi a camminare per la stanza.
“Cosa proponi Caio Giulio Cesare?” esclama Crasso. “Ci inviti qui, in questa Domus Publica, noi veniamo da te, e tu ci parli di noi. Sappiamo benissimo chi siamo, quali sono le nostre forze e le nostre debolezze”.
Si avvicina. E’ brutto, il volto contratto da tic, gli occhi nascosti dai ciuffi delle sopracciglia. “Potremmo parlarti delle tue!” riprende. “La plebe ti ama, è vero. Le bande del tuo alleato, Clodio, battono il quartiere della Suburra. Tutti le temono. Tu sei imperator e pontifex maximus. Ma è tutto, ed è ben poco! Nei tuoi forzieri non hai neppure oro a sufficienza per comprare i voti che ti permetterebbero di esser console …..”
Si china su Cesare. “Ed è quello che vuoi! Io posso prestarti il denaro che ti occorrerebbe.” Ride. “Ne ho più che a sufficienza. Posso comprare tutte le magistrature di Roma. Ma tu, cosa mi offri?”
Con un gesto Cesare lo invita a risedersi. Crasso esita, quasi avesse ricevuto uno schiaffo. Torna tuttavia al suo posto.
“A te Crasso, io non offro nulla” dice.
Crasso si alza a mezzo. Cesare tende il braccio.
“Neppure a te Pompeo, io offro niente. E nulla domando né all’uno né all’altro.”
Si alza, incrocia lentamente le braccia.
“Ma a noi tre, se saremo uniti, un Triumvirato, nessuno potrà imporci la sua legge!”
Si volge a Pompeo
“Tu Pompeo, che Cicerone lusinga e insulta, disporrai delle terre da distribuire ai tuoi veterani”.
Si accosta a Crasso.
“Tu, Crasso, che hai creduto di trovare in Catone un alleato e che ogni giorno scopri che ti inganna, che ha un unico scopo, il dominio dei patres, la loro vittoria su di te, su Pompeo, su di me, che è il nemico di tutti e tre, tu, Crasso, avrai il tuo comando e potrai venire rimborsato di quanto ti sarà costata Roma.”
Apre le dita della mano sempre levata. Torna a chiuderle.
“Ma dobbiamo unirci. In tre, siamo invincibili. Noi siamo il governo di Roma.”
Indica Pompeo.
“Tu, Pompeo Magno hai la tua gloria, i tuoi soldati.”
Indica Crasso. “Tu hai la potenza del denaro, il coraggio del soldato e la crudeltà del capo”.
Cesare si siede. “Io, …” Sorride.
“Siete venuti qui, vi siete sottomessi alla legge del Senato per incontravi con me fuori dal Pomerium, e dunque voi sapete chi sono, ciò che posso.”
D’un tratto Crasso scoppia a ridere. A grandi passi si dirige al tavolo, si riempie la coppa di vino e ingolla una lunga sorsata. “Io so persino quello che tu vuoi, Cesare, vuoi essere eletto console per l’anno 59.”
“Se sarò console…” comincia Cesare.
“Sarai console!” dice Pompeo. “Io ti appoggerò. E se Crasso aggiunge la sua potenza alla mia, chi potrebbe venire eletto al tuo posto?”
Cesare abbassa la testa. Sarà console, lo sa. Disporrà dell’imperium. A quarantadue anni ricoprirà la più alta carica della Repubblica. Dirigerà gli eserciti di Roma e, allo scadere dell’incarico, sarà proconsole, alla testa di una Provincia.

E allora potrà tornare, imporsi come il solo signore di Roma. Il capo unico, l’eguale di un dio e di un re di cui ha bisogno questa città dacché è divenuta padrone del Mondo.
“Console” afferma. “Io sarò colui che vi unisce.” Chiude il pugno. “Noi saremo il governo di Roma”.
Pompeo si alza, Crasso lo imita. Si avvicinano l’uno all’altro. Cesare si unisce a loro. Tendono le braccia, e loro mani si intrecciano, si annodano.

 

Capitolo XXIV – ROMA 59 A.C. – TRIBUNA DEL FORO (Max Gallo)

…. Crasso e Pompeo si avvicinano a Cesare. Crasso gli dichiara il suo sostegno, e Pompeo proclama ad alta voce: “Se qualcuno osa estrarre il gladio, io leverò il mio scudo!”
“Nessuno può opporsi alla nostra forza unita” dice Cesare.
Guarda la plebe, i volti di Crasso e Pompeo. E’ il console, colui che decide e che governa. “Io sono Roma” mormora.
Adesso, lo sente, lo vede: lo si teme. Sul suo passato si tace. Le sue proposte sono state accettate. E’ necessario riconoscere l’organizzazione delle Province quale è stata voluta da Pompeo. Cesare riforma la giustizia in modo che gli aristocratici di Roma non siano i soli a fare udire la loro voce nei Tribunali. D’ora in poi, si voterà per “ordine” e i cavalieri avranno così influenza sulle decisioni. Cesare vuole appoggiarsi a questi ultimi, che hanno costituito società finanziarie, che prestano a tassi usurari e che si sono spartiti le Province in cui il Senato ha affidato loro la riscossione delle imposte.
Là sta il denaro. Là, dunque, sta una delle fonti del potere, con le armi, la gloria, l’autorità divina e la paura che tutto ciò ispira. E Cesare vuole denaro. Deve finire di saldare Crasso e pagare le bande di Clodio. Decide pertanto che i cavalieri che riscuotono l’imposta potranno tenere per sé un terzo dei loro introiti. E lui ha partecipazione in quelle società, come del resto Crasso. Ecco così l’alleato ricompensato, come lo è già stato Pompeo con le terre distribuite ai suoi veterani e il riconoscimento delle sue conquiste in Asia.
Cesare impone al Senato il riconoscimento del faraone d’Egitto come alleato amico del popolo romano. E Tolomeo XII Aulete versa seimila talenti perché l’appoggio di Roma consolida il suo potere fra i rivali.
“Ecco qua” dice Cesare mostrando a Crasso i forzieri pieni d’oro.
Così lega a sé Crasso.
Resta Pompeo che non ha la stessa risata incontenibile quando affonda le mani nell’oro.
Deve legarlo con altri vincoli che non siano quelli del denaro ……
“Tu sei solo” dice a Pompeo “Come può un uomo come te restare senza moglie?”
“E tu? ”, si stupisce Pompeo. “Chi veglia sui tuoi déi Lari?”
“Potrei risponderti: mia madre, Aurelia Cotta e mia figlia Giulia” replica Cesare. “Ma una è vicina alla morte, e l’altra deve sposarsi. Sicché intendo prendere moglie.”
Ha deciso infatti di sposare Calpurnia, la figlia di Calpurnio Pisone, che sarà console nel 58.
“Sarà nostro alleato” soggiunge Cesare. “Se sono lontano da Roma, proconsole in una delle nostre Province, egli veglierà sui miei interessi, sui nostri”.
“Concludi un’alleanza” borbotta Pompeo.
“Il matrimonio è questo”. Si avvicina a Pompeo, che è uomo vigoroso, quasi corpulento. Ha sei anni più di lui. “Ti offro Giulia” dice Cesare afferrando Pompeo per il braccio.
Pompei si volta, sgranando gli occhi.

“Mia figlia Giulia, nipote di Cinna. Mia figlia, Pompeo! Te la offro a riprova della saldezza della nostra alleanza”. Lo libera dalla stretta. “Ha diciassette anni. Tu ne hai trenta più di lei. Quello che ti dono è un frutto acerbo”.
Sa che Pompeo non può rifiutare. E Cesare ha già avvertito Giulia, allontanato il suo fidanzato, un uomo devoto che si è adoperato a combattere Bibulo e Catone. Ma anche gli déi sono ingrati, e colui che vuole diventare loro eguale, che deve accoglierne le sfide, sedurre la Fortuna, deve comportarsi come loro. Si può rinunciare a fare di Pompeo Magno, il Pompeo imperator, il proprio genero? Giulia lo manterrà al guinzaglio, Pompeo non morderà più.
Negli occhi di Pompeo, Cesare legge che anche lui calcola i suoi vantaggi. Deve pensare che, restando a Roma, con il console al termine del mandato intento a governare una Provincia, disporrà del suo appoggio, perché sarà il genero del pontifex maximus.
Cesare si scosta. Preferisce nascondere la certezza che lo colma. Crasso comprato, Pompeo legato mediante matrimonio, il console Pisone costretto a sostenerlo dal momento che è divenuto suo suocero, Clodio che sarà tribuno della plebe e che terrà il filo del gladio sulla gola dei Senatori.

Capitolo XXIX – IL TRIUMVIRATO A LUCCA 56 A.C. (Max Gallo)

Cesare è seduto nella villa di Lucca dove è giunto dopo avere percorso le strade dell’Illiria, la terza Provincia sulla quale esercita il suo imperium di proconsole. Non c’è guarnigione, non c’è città dove non sia stato accolto come colui la cui fronte è stata cinta dalla Fortuna con la corona della vittoria e della gloria.
E’ tuttavia preoccupato. Labieno e i legati, rimasti in Gallia con le legioni, hanno inviato messaggeri. Temono una sollevazione dei Veneti che popolano le regioni vicine all’Oceano, quell’Armorica che prolunga in una miriade di isole, ciascuna delle quali può divenire un rifugio, una piazzaforte. I Veneti possiedono una flotta numerosa e sembra che vogliano raccogliere sotto la loro autorità tutte le popolazioni marittime, dai Morini a nord ai Santoni a sud, dal Belgio, sempre quello, all’Aquitania.
Non si finirà mai con la Gallia!
Cesare traccia alcune righe. “I Galli in generale sono aperti al nuovo e si impegnano in una guerra con grande leggerezza e altrettanta precipitazione, d’altra parte consapevoli che tutti gli uomini sono portati per natura a bramare la libertà e a odiare il servaggio”.
Ne è certo, dovrà tornare in Gallia, ricominciare la guerra, portarne a termine la conquista, e attorno a lui non c’è nessuno che non lo sproni a partire. Ma non è ancora venuto il momento. Prima, deve assicurarsi che i nemici da Roma non gli lanceranno contro, mentre combatte, i giavellotti del tradimento.
Ed è per questa ragione che si trova a Lucca, la città della Gallia cisalpina più vicina a Roma, allo scopo di incontrarsi con coloro che possono divenire o restare suoi alleati.
Immobile, gli occhi semichiusi, le braccia conserte, ascolta i senatori che, giunti da Roma, fanno atto di fedeltà, rivelano nomi, sollecitano un favore, un appoggio, in cambio, dicono, della loro fedeltà.
Li colma di riguardi. Nei limiti in cui può farlo, concede loro ciò che chiedono, e quelli se ne vanno proclamando la loro riconoscenza. Cesare non replica, neppure segue con lo sguardo il visitatore che se ne va. Lo si adula perché si ha paura della sua potenza, quella che gli conferisce la gloria del vincitore, la cui fonte è la ricchezza accumulata grazie a tanti saccheggi e alla vendita di migliaia di schiavi, e soprattutto la più grande, quella che deriva dalle nove legioni che sono

al suo comando e alle quali si aggiungono le unità ausiliari, Galli edui o della Cisalpina e persino uomini dell’Illiria o cavalieri della Narbonese.
Esce dalla Domus. Le strade di Lucca, che è una piccola città, sono colme di una folla che sorprende gli abitanti. Le lettighe dei senatori ingombrano le vie, per le quali passano centoventi littori venuti anch’essi a rendere omaggio al proconsole Caio Giulio Cesare, pontifex maximus di Roma.
Emilio corre dagli uni agli altri, fissa le ore di udienza, sussurra i nomi, spiegando che quel tale senatore desidera essere ricevuto è il duecentesimo membro della Curia che ha affrontato il viaggio per presentarsi a lui.
“Tu sei il primo” dice Emilio sorridendo. “Tutti i visitatori lo comprovano. Vengono tutti a te”.
Cesare non risponde.
Accoglie Crasso che si lamenta di Pompeo, si rammarica che il Triumvirato un po’ alla volta si disgreghi.
Cesare lo osserva. L’amarezza e la gelosia sconvolgono i tratti quando pronuncia il nome di Pompeo.
“La nostra unione è la nostra forza” assicura Cesare. Si alza, lo prende familiarmente per il braccio. Non è più quell’uomo indebitato che chiedeva al ricco Crasso di prestargli il denaro necessario alle sue campagne elettorali. Adesso i suoi forzieri sono ricolmi. E ha avuto sesterzi bastanti per reclutare e armare dodicimila uomini di due nuove legioni. E quando avrà conquistata tutta la Gallia, saccheggiato tutte le città ostili, le loro case e i loro templi, e avrà venduto diecine di migliaia di abitanti, sarà ricco perlomeno quanto Crasso. Ma avrà in più la gloria e la potenza delle armi.
“Ecco Pompeo” mormora Cesare.
Muove alla volta di Pompeo, le cui guardie allontanano la folla che si è radunata davanti alla villa.
“E’ venuto?” chiede Crasso sbalordito.
“E’ come ciascuno di noi” pensa Cesare, “impotente a vincere gli altri due’ e dunque costretto a consociarsi a loro.”
Cesare stringe a sé Pompeo, lo porta dentro la villa, ed ecco subito Pompeo parlare con emozione di Giulia. Si inchina. Con la figlia di Caio Giulio Cesare , dice, ha conosciuto la pace. E’ la giovane sposa che sperava, una donna buona consigliera, prudente e fedele.
Cesare ringrazia. Ha voluto quel legame familiare per controllare meglio Pompeo. E adesso deve riannodare il Triumvirato, riavvicinare Crasso e Pompeo, e grazie a quest’unione a tre, quella
degli uomini più potenti di Roma, progettare l’avvenire, imporlo ai patres, ottenere l’adesione dei maggiorenti, come Cicerone che sa sempre indovinare, da un solo soffio, il vento che tira.
“Dobbiamo essere uniti” ricorda Cesare.
Nota che Pompeo e Crasso non si guardano, ma volgono gli occhi a lui che il padrone del gioco, la chiave di volta.
“Siate i due consoli dell’anno 55, così Roma comprenderà che siamo alleati, e quindi invincibili”.
Finalmente, si scambiano un’occhiata.
“E poi?” chiede Crasso. “Il consolato dura solo un anno, e tu lo sai bene, Cesare. Il valore della carica dipende unicamente dalla Provincia di cui si diviene il proconsole. Cosa saresti tu, oggi, senza la Gallia Narbonese, senza la Cisalpina, senza l’Illiria?”
Cesare annuisce. Deve rivelare a Crasso una parte della verità. “E voglio conservarle, prolungare il mio imperium su quelle tre Province, concludere la conquista della Gallia e stare così proconsole fino al momento in cui potrò nuovamente pendere l’elezione al consolato. Per questo ho bisogno di Voi. Se sarete consoli…”.
Pompeo si alza cammina avanti e indietro nella stanza. “Devi lasciar passare dieci anni tra il tuo primo consolato e il secondo. E’ la legge”.
“Nel 48 sarà fatto.”

“E fino a quel momento le Gallie!” esclama Crasso ridendo.
“Ne hai di appetito. E quanto a me, credi che il mio ventre si accontenti di un anno di consolato?
“Conquista poi la Siria, muovi guerra ai Parti, e sarai glorioso!”
Vede il volto di Crasso illuminarsi in un sorriso, che però tenta di cancellare quando si volge a Pompeo.
“Di noi tre, Pompeo” soggiunge Cesare “tu sei colui che ha la fronte maggiormente coronata dal trionfo. Che ne diresti, al termine del tuo consolato, di governare le due Province della Spagna? Non è neppure necessario torchiarle perché diano oro. Conosci Balbo, il mio fedele Ispanico di Cadice? Lui ti dirà tutto ciò che vuoi sapere sul conto dei tuoi Ispanici”.
Pompeo si pavoneggia, sorride. “I miei Ispanici” ripete “Tu disponi dell’avvenire come se fossi il padrone di Roma! Chi ti dice che saremo eletti consoli, e poi che ci saranno concessi la Siria e gli Ispanici, e a te una proroga in Gallia?”
Cesare si alza a sua volta, si avvicina a Pompeo, gli tocca la spalla, poi si dirige verso Crasso, che è rimasto seduto, e fa lo stesso gesto. “Non dipende da me” risponde, “Da solo, nulla posso. Ma uniti, noi tutto possiamo. Conosciamo a Roma qualcuno in grado di opporsi a ciò che vogliamo? I senatori si inchineranno e Cicerone, con le sue belle frasi, la sua voce di grande oratore, spiegherà loro che non può esserci scelta migliore”.
Pompeo e Crasso scoppiano a ridere.
Cesare tende loro le mani perché vengano ad aggiungere le loro.
Si avvicinano. Intrecciano le loro dita con le sue.
Cesare deve fare in modo che il suo volto non esprima alcuna gioia affinchè Crasso e Pompeo si convincano che l’accordo che hanno concluso è equo.
Possibile che non si rendano conto che uno di loro, Crasso, sarà impegnato nella guerra contro i Parti, così lontano da Roma che non giocherà alcun ruolo nell’Urbe, e chi può dire se sarà vincitore di quel potente impero? E l’altro, Pompeo, quali allori potrà spigolare in quelle Spagne, dove tutti i popoli sono sottomessi e alle quali potrà accedere solo attraversando la Gallia Cisalpina e la Narbonese?
“Le mie Province”.
Cesare prende a braccetto Crasso e Pompeo. Lui dice deve fare la guerra pe la grandezza di Roma, per aggiungere ai suoi possessi la Gallia comata. Ha reclutato legioni a proprie spese. Si augura che il tesoro di stato si faccia carico del mantenimento di quattro di esse. Questo lo dice con tono distratto, quasi che la decisione sia senza importanza, e Crasso e Pompeo annuiscono.
Scocca loro un’occhiata. I due sono già immersi nei loro sogni di potere. Dimentichi che bisogna sempre restare in guardia, non lasciarsi inebriare dal successo. Immaginano la loro elezione, le feste che celebreranno a Roma.
“Inaugurerò il mio teatro!” esclama Pompeo. “E voglio che quel giorno vi si uccidano cinquecento leoni e decine di elefanti. Voglio che il sangue sparso delle bestie feroci dia ai Romani la misura della nostra potenza e la fierezza di appartenenza a questo Stato!”
Cesare annuisce. Presta orecchio a Crasso che promette, per celebrare la propria elezione al consolato, combattimenti di centinaia di gladiatori.
Cesare nulla dice, lui si batterà in Gallia.
Farà dono ai Romani di una nuova Provincia. E la plebe lo glorificherà.
Guarda Pompeo e Crasso che gareggiano in fatto di magnificenze future e contano i cadaveri di bestie selvatiche e di gladiatori che vogliono offrire a Roma.
I due si concedono. Crasso e Pompeo neppure si girano a guardarlo.
Quando gli déi vogliono rovinare un uomo, lo rendono vanitoso, vale a dire cieco e sordo, dimentico della potenza altrui.

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